Consigli reciproci e divergenze di pensiero
emergono dall’epistolario
Fratelli Sturzo
a confronto
La figura di don Luigi Sturzo, fondatore del
Partito Popolare Italiano, è ben nota come esponente di primo piano del
movimento cattolico-sociale italiano e per la mole delle sue opere scritte
soprattutto durante il periodo dell’esilio.
Non la stessa cosa si può dire per suo
fratello, monsignor Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina dal 1903 al 1941,
del quale si è appena celebrato il 150° anniversario della nascita. Egli è
stato una figura poliedrica: vescovo, filosofo, poeta, maestro di spiritualità,
uomo di profonda cultura,
radicato nella tradizione ecclesiale ma anche aperto al dialogo con la
società contemporanea.
Dei rapporti di Luigi con il fratello Mario
esiste un raro scritto pubblicato in inglese nella «Dublin Review» nell’ottobre
1930. Scrive Luigi: «È la prima volta che mi induco a scrivere su mio fratello.
La nostra vita può dirsi la più unita spiritualmente, ma nella realtà la più
distinta e distaccata. Egli più grande di me di dieci anni mi è stato sempre
oltre che fratello carissimo, consigliere e guida. Ma d’altro lato è più di 27
anni che viviamo lontani; io nella vita politica e negli studi di scienze
sociologiche e storiche, egli nell’attività pastorale, come vescovo di una ben
larga diocesi siciliana. La libertà di spirito e la sincerità di tratto, nella
quale siamo stati educati, ci ha fatto guardare la reciproca attività con un
senso critico impersonale; e la esperienza così diversa di ciascuno ci è
servita (a me moltissimo) per integrare la propria esperienza».
Non è possibile comprendere separatamente i
due fratelli formatisi nel periodo del pontificato leoniano. Mario fu
soprattutto influenzato dall’enciclica Aeterni Patris del 1879 che lo
portò a interessarsi del rinnovamento della filosofia cristiana, mentre Luigi
ebbe come punto di riferimento soprattutto la Rerum novarum, ma ambedue
nutrirono interessi culturali, sociali e pastorali tesi al rinnovamento della
presenza dei cattolici nella società.
Mario ebbe un influsso particolare nella
maturazione della vocazione sacerdotale e sulla formazione intellettuale e
spirituale del fratello minore, di cui durante il periodo seminaristico a
Caltagirone fu professore, rettore del seminario e direttore degli studi. Luigi
ancora diciottenne tenne il sermone in occasione dell’ordinazione sacerdotale
del fratello il 22 settembre 1889 nel quale insistette soprattutto sulla
«sovrana bellezza del sacerdozio cattolico» e sulla dignità del presbitero
visto come mediatore tra Dio e gli uomini. Fu poi Mario a tenere il panegirico
per l’ordinazione presbiterale di Luigi, il 19 maggio 1894, sottolineando la
missione pastorale del prete soprattutto nei confronti dei giovani indicandogli
come modello san Filippo Neri. Mario inoltre collaborò con il fratello minore
scrivendo bozzetti e romanzi a puntate di ispirazione democratico cristiana sul
periodico «La Croce di Costantino» fondato e diretto da Luigi.
I fratelli si sono scambiati alcune migliaia di
lettere soprattutto tra il 1924 e il 1940 nel periodo in cui Luigi era in
esilio, che sono state pubblicate in cinque volumi. Ce ne sono ancora diverse
centinaia inedite tra il 1894 e il 1924. Da queste emerge, pur nella differenza
delle loro personalità e delle loro storie personali, la profonda spiritualità,
la comune ansia di santità, la grande apertura intellettuale e la carità
pastorale che li portò ad approfondire la rilevanza culturale e sociale della
fede vissuta all’interno della Chiesa.
Non sempre i due fratelli andarono d’accordo.
In una conferenza, tenuta il 25 maggio 1902 al circolo cattolico di Palermo per
commemorare la Rerum novarum, Luigi aveva detto: «La giustizia (...) è
una virtù basata sopra un principio fondamentale della natura umana, precisato
e determinato dai rapporti che ci legano ai nostri simili, l’amore del
prossimo; il quale amore, nella sua ragione intrinseca, non è utilità che viene
da noi, non è simpatia di sentimento, non attrazione di cuori, ma uguaglianza
di natura razionale, di principio e di finalità che ha necessario rapporto con
Dio; l’amore di Dio genera l’amore del prossimo». Nella stessa conferenza
Sturzo addebita la responsabilità di una concezione della società basata
sull’egoismo alla privatizzazione della religione e all’esclusione della morale
cristiana dalla società: «Non è meraviglia se la società oggi non si adagia in
nessuno dei partiti che spiegano la bandiera della giustizia sociale: la
giustizia nella sua essenza manca. Manca, perché manca l’amore del prossimo; e
questo non vi è perché manca l’amore di Dio; e l’amore di Dio non vi è né vi
può essere, perché della religione si è voluto fare un rapporto solamente
privato di coscienza, e non sociale; la religione è stata esclusa dalla
società».
Se Luigi Sturzo più portato all’impegno
concreto, accentua l’unione fra giustizia e carità, il fratello Mario, arrivato
al sacerdozio dopo gli studi universitari di giurisprudenza e più portato
all’analisi teorica, in una lettera al fratello del 4 giugno 1902, sottolinea:
«Scrivo per farti notare una inesattezza nel tuo discorso, che vorrei corretta
sugli estratti, corretta ad ogni costo, (...). La giustizia non può confondersi
con la carità; sono due virtù distinte; (...). La giustizia non so se possa
rigorosamente dirsi basata sull’amore del prossimo; ma essa parrebbe invece
basata sul debito cioè sui rapporti fissati dalla natura e dalle convenzioni,
che danno a ciascuno il diritto e perciò a ciascuno il dovere (...) Onde,
secondo me, potrebbe aversi giustizia senza carità! Prestare perché si
riconosce il debito, ma non perché si ama».
Nonostante Mario esortasse il fratello minore
a correggere il testo, Luigi non lo fece. È interessante però che Mario,
nominato vescovo di Piazza Armerina nel 1903, nella sua prima lettera pastorale
alla diocesi sembra dar ragione al fratello Luigi. Scrive infatti: «È da
considerare che la giustizia, quand’anche valesse a vincere l’egoismo, sola non
basterebbe a regolare tutti i rapporti dei consociati. (...) Rapporti che,
scaturendo dalla convivenza di uomini liberi e rispondendo all’ampiezza
dell’umana attività e libertà, dovendo pel bene comune soggiacere a una legge,
vogliono che questa legge sia ampia, regolatrice non coercitrice della libertà,
e che possa, ordinando, agevolare, non restringere, l’attività umana.
Quest’altra legge, che sia ampia quanto la libertà umana, che comprenda tutti i
rapporti dei consociati, che valga ad animare ed integrare la legge della
giustizia, è chiaro che non potrebbe essere che la legge dell’amore». Dava in
qualche modo ragione al fratello Luigi che in tutti i suoi scritti posteriori,
basandosi sul magistero pontificio, sentì come sua missione quella di
introdurre la carità nella vita pubblica e di indire quella che chiamò «la
crociata dell’amore nella politica».
Michele Pennisi