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domenica 19 febbraio 2012

I FRATELLI STURZO A CONFRONTO DI MICHELE PENNISI


Consigli reciproci e divergenze di pensiero emergono dall’epistolario



Fratelli Sturzo
a confronto

La figura di don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare Italiano, è ben nota come esponente di primo piano del movimento cattolico-sociale italiano e per la mole delle sue opere scritte soprattutto durante il periodo dell’esilio.

Non la stessa cosa si può dire per suo fratello, monsignor Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina dal 1903 al 1941, del quale si è appena celebrato il 150° anniversario della nascita. Egli è stato una figura poliedrica: vescovo, filosofo, poeta, maestro di spiritualità, uomo di profonda cultura, radicato nella tradizione ecclesiale ma anche aperto al dialogo con la società contemporanea.

Dei rapporti di Luigi con il fratello Mario esiste un raro scritto pubblicato in inglese nella «Dublin Review» nell’ottobre 1930. Scrive Luigi: «È la prima volta che mi induco a scrivere su mio fratello. La nostra vita può dirsi la più unita spiritualmente, ma nella realtà la più distinta e distaccata. Egli più grande di me di dieci anni mi è stato sempre oltre che fratello carissimo, consigliere e guida. Ma d’altro lato è più di 27 anni che viviamo lontani; io nella vita politica e negli studi di scienze sociologiche e storiche, egli nell’attività pastorale, come vescovo di una ben larga diocesi siciliana. La libertà di spirito e la sincerità di tratto, nella quale siamo stati educati, ci ha fatto guardare la reciproca attività con un senso critico impersonale; e la esperienza così diversa di ciascuno ci è servita (a me moltissimo) per integrare la propria esperienza».

Non è possibile comprendere separatamente i due fratelli formatisi nel periodo del pontificato leoniano. Mario fu soprattutto influenzato dall’enciclica Aeterni Patris del 1879 che lo portò a interessarsi del rinnovamento della filosofia cristiana, mentre Luigi ebbe come punto di riferimento soprattutto la Rerum novarum, ma ambedue nutrirono interessi culturali, sociali e pastorali tesi al rinnovamento della presenza dei cattolici nella società.

Mario ebbe un influsso particolare nella maturazione della vocazione sacerdotale e sulla formazione intellettuale e spirituale del fratello minore, di cui durante il periodo seminaristico a Caltagirone fu professore, rettore del seminario e direttore degli studi. Luigi ancora diciottenne tenne il sermone in occasione dell’ordinazione sacerdotale del fratello il 22 settembre 1889 nel quale insistette soprattutto sulla «sovrana bellezza del sacerdozio cattolico» e sulla dignità del presbitero visto come mediatore tra Dio e gli uomini. Fu poi Mario a tenere il panegirico per l’ordinazione presbiterale di Luigi, il 19 maggio 1894, sottolineando la missione pastorale del prete soprattutto nei confronti dei giovani indicandogli come modello san Filippo Neri. Mario inoltre collaborò con il fratello minore scrivendo bozzetti e romanzi a puntate di ispirazione democratico cristiana sul periodico «La Croce di Costantino» fondato e diretto da Luigi.

I fratelli si sono scambiati alcune migliaia di lettere soprattutto tra il 1924 e il 1940 nel periodo in cui Luigi era in esilio, che sono state pubblicate in cinque volumi. Ce ne sono ancora diverse centinaia inedite tra il 1894 e il 1924. Da queste emerge, pur nella differenza delle loro personalità e delle loro storie personali, la profonda spiritualità, la comune ansia di santità, la grande apertura intellettuale e la carità pastorale che li portò ad approfondire la rilevanza culturale e sociale della fede vissuta all’interno della Chiesa.

Non sempre i due fratelli andarono d’accordo. In una conferenza, tenuta il 25 maggio 1902 al circolo cattolico di Palermo per commemorare la Rerum novarum, Luigi aveva detto: «La giustizia (...) è una virtù basata sopra un principio fondamentale della natura umana, precisato e determinato dai rapporti che ci legano ai nostri simili, l’amore del prossimo; il quale amore, nella sua ragione intrinseca, non è utilità che viene da noi, non è simpatia di sentimento, non attrazione di cuori, ma uguaglianza di natura razionale, di principio e di finalità che ha necessario rapporto con Dio; l’amore di Dio genera l’amore del prossimo». Nella stessa conferenza Sturzo addebita la responsabilità di una concezione della società basata sull’egoismo alla privatizzazione della religione e all’esclusione della morale cristiana dalla società: «Non è meraviglia se la società oggi non si adagia in nessuno dei partiti che spiegano la bandiera della giustizia sociale: la giustizia nella sua essenza manca. Manca, perché manca l’amore del prossimo; e questo non vi è perché manca l’amore di Dio; e l’amore di Dio non vi è né vi può essere, perché della religione si è voluto fare un rapporto solamente privato di coscienza, e non sociale; la religione è stata esclusa dalla società».

Se Luigi Sturzo più portato all’impegno concreto, accentua l’unione fra giustizia e carità, il fratello Mario, arrivato al sacerdozio dopo gli studi universitari di giurisprudenza e più portato all’analisi teorica, in una lettera al fratello del 4 giugno 1902, sottolinea: «Scrivo per farti notare una inesattezza nel tuo discorso, che vorrei corretta sugli estratti, corretta ad ogni costo, (...). La giustizia non può confondersi con la carità; sono due virtù distinte; (...). La giustizia non so se possa rigorosamente dirsi basata sull’amore del prossimo; ma essa parrebbe invece basata sul debito cioè sui rapporti fissati dalla natura e dalle convenzioni, che danno a ciascuno il diritto e perciò a ciascuno il dovere (...) Onde, secondo me, potrebbe aversi giustizia senza carità! Prestare perché si riconosce il debito, ma non perché si ama».

Nonostante Mario esortasse il fratello minore a correggere il testo, Luigi non lo fece. È interessante però che Mario, nominato vescovo di Piazza Armerina nel 1903, nella sua prima lettera pastorale alla diocesi sembra dar ragione al fratello Luigi. Scrive infatti: «È da considerare che la giustizia, quand’anche valesse a vincere l’egoismo, sola non basterebbe a regolare tutti i rapporti dei consociati. (...) Rapporti che, scaturendo dalla convivenza di uomini liberi e rispondendo all’ampiezza dell’umana attività e libertà, dovendo pel bene comune soggiacere a una legge, vogliono che questa legge sia ampia, regolatrice non coercitrice della libertà, e che possa, ordinando, agevolare, non restringere, l’attività umana. Quest’altra legge, che sia ampia quanto la libertà umana, che comprenda tutti i rapporti dei consociati, che valga ad animare ed integrare la legge della giustizia, è chiaro che non potrebbe essere che la legge dell’amore». Dava in qualche modo ragione al fratello Luigi che in tutti i suoi scritti posteriori, basandosi sul magistero pontificio, sentì come sua missione quella di introdurre la carità nella vita pubblica e di indire quella che chiamò «la crociata dell’amore nella politica».

  Michele Pennisi